Politiche sociali, sviluppo e giustizia fiscale A Roma l’Italia del terzo settore

Presentato oggi il rapporto annuale di Social Watch: "Ancora una volta i dati ci dicono che lo sviluppo economico non è sinonimo di maggiore giustizia sociale"

Viva l’Italia, l’Italia che resiste, cantava Francesco De Gregori. Quel tipo d’Italia si è manifestata Roma davanti Palazzo Chigi per discutere di politiche sociali, immigrazione, giustizia fiscale. Tante le sigle presenti: Acli, Arci, Amnesty, Banca Etica, WWF, Mani Tese solo per nominarne alcune.

Tutte queste realtà fanno parte di Social Watch, un cartello di organizzazioni della società civile, presente in oltre 60 paesi, che fa pressione sui governi perché nelle agende nazionali siano inseriti temi come la lotta alla povertà e la parità fra i generi.

Una delle principali attività di Social Watch è il suo Rapporto annuale che oggi è stato presentato ufficialmente nella Capitale. “Ancora una volta i dati ci dicono che lo sviluppo economico non è sinonimo di maggiore giustizia sociale – ha detto Jason Nardi, portavoce di Social Watch Italia – I movimenti sociali in Tunisia e in Egitto sono un segnale chiaro che i diritti fondamentali e un’equilibrata distribuzione della ricchezza sono irrinunciabili a qualunque latitudine”.

La battaglia contro la povertà procede a singhiozzo e gli obiettivi del millennio (la campagna dell’Onu per la riduzione della povertà, disuguaglianze e fame) sono ancota al di là dal venire.

“Se i poveri fossero una banca sarebbero stati salvati – continua Nardi – Per raggiungere gli obiettivi del millennio servirebbero 100 miliardi di dollari l’anno. Per salvare le banche, negli ultimi due anni, sono stati spesi oltre 13.000 miliardi di dollari“.

Il problema, si legge nel Rapporto, sono anche gli indicatori attualmente usati per misurare il benessere dei popoli, che sono “inadeguati” e danno un’immagine distorta della realtà.

Per ovviare al problema Social Watch ha realizzato uno strumento in proprio: “l’Indice delle Capacità di Base BCI (Basic Capabilities Index), un parametro alternativo che definisce la povertà non in termini di prodotto interno lordo (PIL) ma in base alla possibilità di godere di alcunidiritti fondamentali, come la percentuale di bambini che arriva alla quinta elementare, la sopravvivenza fino ai cinque anni di età o la percentuale di nascite assistite da personale qualificato.

I dati del BCI disegnano un’immagine molto diversa sulla povertà nel mondo rispetto a quella che viene presentata ogni anno dai media internazionali. “Se il reddito pro capite è cresciuto del 17% a livello mondiale nel periodo 1990-2000 e del 19% tra il 2000 e il 2009, il BCI mostra una tendenza opposta – si legge nel Rapporto – L’indice passa dal +4% degli anni Novanta al +3% del primo decennio del 2000″. Il progresso sociale è quindi rallentato, nonostante il PIL sia generalmente cresciuto.

Ma nel rapporto c’è anche spazio per l’ottimismo. Negli ultimi 20 anni, i progressi a livello mondiale nelle “capacità di base” sono stati comunque significativi: i paesi con livelli intermedi e accettabili dell’indice sono aumentati dal 40% al 61%, mentre quelli con valori molto bassi e critici sono diminuiti dal 60 al 39%. Dal 1990 sono avanzati moltissimo il Brasile, il Guatemala e il Belize. All’estremo opposto si trovano i paesi dell’Africa sub-sahariana, che si attestano ancora su livello molto critici.

Italia, maglia nera nelle politiche sociali

Social Watch non risparmia critiche – supportate da dati e statistiche ufficiali – all’Italia, ormai sempre più “in caduta libera”. A partire dalla condizione della donna. Nel 2009, per la prima volta dal 1996, il tasso di occupazione femminile è sceso (al 46,4%) mostrando un ulteriore peggioramento nel 2010. Una decisa inversione di tendenza dopo che l’occupazione delle donne era salita di quasi 10 punti percentuali dal 1996 al 2009. In calo anche il potere d’acquisto (-2,5% nel 2009), mentre cresce la povertà assoluta, che colpisce il 4,7% delle famiglie: oltre tre milioni di persone. Note dolenti anche per i giovani, che registrano un costante aumento dei cosiddettiNeet (Not in education, employment or training), i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non frequentano alcun corso di formazione. In Italia sono il 21,2%: il peggior risultato in Europa.

Le cifre sono desolanti, ma per Social Watch è ora di fare proposte concrete. A partire dalla fiscalità. “Non si può uscire dalla crisi senza una maggiore equità fiscale“, continua Jason Nardi. “Social Watch propone tre misure: un’imposta del 5 per mille su tutti i patrimoni al di sopra di 5 milioni di euro, un aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 12,5% al livello medio europeo del 20% e un tassa internazionale sulle transazioni finanziarie, per ridurre la volatilità dei mercati e far pagare la crisi in primo luogo a chi ha causato la bolla speculativa”. Un tema, quest’ultimo, che è stato ripreso subito dopo il convegno per la presentazione del Rapporto, in una manifestazione davanti a Montecitorio.

Scarica qui il rapporto 2010 di Social Watch

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